Heinrich Panofka:
Considerazioni generali IX
In che consiste la vera forza della voce
Ci duole , e a ragione , degli sforzi dei nostri cantanti; essi si addebitano, con punta ragione, di cercare gli effetti nelle grida,
Noi possiamo distinguere tre gradi di voci forti, e tre cantanti possono rappresentarci quei tre gradi di forza vocale: la voce di Lablache era una voce fortissima; quella di Tamburini, meno, e quella di Rubini, molto meno ancora. E questi tre grandi artisti hanno pur nonostante per lunghi anni fatto una splendida figura l’una accanto all’altro, senza scapito di nessuno, nè soli nè insieme. Noi ci fermeremo di preferenza alla voce di Rubini per risolvere il nostro quesito.
La voce di questo cantante ammirabile era senz’altro debole in confronto di quella di Lablache; e nondimeno essa eccitava all’entusiasmo, essa rapiva in quei punti dove l’artista esprimeva le più forti passioni e i più gagliardi sentimenti. E notate bene che questi effetti non partivano che dalla sola voce; perchè Rubini era un mediocre attore e i suoi gesti poco eletti, e spesso nocivi all’espressione drammatica. Non si può adunque appuntare di debolezza la voce di Rubini, poichè prestavasi agli effetti più potenti e drammatici; ma Rubini aveva saputo regolare le ricchezze che gli offriva il suo organo vocale; egli ha saputo cantar pianissimo in guisa da farsi sentire al San Carlo di Napoli, alla Scala di Milano e al Teatro della Regina a Londra; le tre più vaste platee d’Europa.
Se egli, dopo, cantava piano, si notava già una gradazione di vigore, una progressione sensibilissima, un affetto: il piano gli bastava per i Cantabili, per le frasi espressive e pei sentimenti d’un grado più elevato: e allora ei faceva altrettanto e più affetto di molti cantanti quando spiegano tutta la loro voce; ma quando si trattava di manifestare dei sentimenti vigorosi, eccessivi, della passione viva, d’arrivare ai grandi effetti drammatici, allora soltanto Rubini spiegava la forza naturale della sua voce.
Nè mai ricorreva alle grida, agli urli, agli straziamenti di voce; egli era sicuro della sua potenza perchè era vera e non artificiale; egli era certo di conservarla sempre, perchè era nella natura stessa della sua voce e l’aveva spiegata con uno studio giudizioso, e non coll’artifizio nè collo sforzo!
Lo sforzo! Ma questo è segno o di debolezza o di fatica. La forza è il segno della capacità! Lo sforzo non deve mai diventare un principio, e chi tal lo proclama si fa reo di delitto di lesa-voce. Nessun artista deve fare sforzi. Voi compositori e poeti, su, fate dunque degli sforzi per trovare un pensiero nuovo» Non vi vien egli spontaneo quando avete del genio? Voi, cantanti, fate adunque degli sforzi per deliziare e per trascinare! Voi darete nell’esagerato, e perderete il tempo e la voce.
Un artista su mille si salverà collo sforzo, e questo è una sventura, una grave sventura; perchè incammina alla perdita tutti coloro che lo imitano, e diventa il vero autore della decadenza vocale.
Da ciò che finora abbiam detto ne deriva un principio: la vera forza d’una voce consiste nella facoltà di modulare il suono ad arbitrio e con un timbro chiaro e squillante dal pianissimo fino al forte, in guisa che l’ultimo grado della potenza vocale sia la forza naturale della voce, e non già un fortissimo prodotto da uno sforzo, dall’esagerazione.
Testo estratto da Voci e cantanti, Ventotto capitoli di considerazioni generali sulla voce e sull’arte del canto, Enrico Panofka, Firenze, 1871. – Luca D’Annunzio.