Beniamino Gigli:
Come l’artista sceglie il suo repertorio
Se si potesse applicare alla lettera questa domanda ne guadagnerebbe certamente la longevità artistica di ogni cantante. Perché indubbiamente il fuoco sacro che accende e alimenta la nostra passione ci rende desiderosi e direi quasi impazienti di ampliare il nostro repertorio, allargando il più possibile la nostra sfera di azione e di interpretazione.
Ma purtroppo questa impazienza e questo desiderio si urtano contro limiti di svariatissima natura; direi così di carattere soggettivo e oggettivo. Soggettivamente, infatti, la remora è imposta dalla resistenza fisiologica e dall’ampiezza e dalla durata dei mezzi individuali di cui l’artista dispone. Oggettivamente poi la limitazione nella scelta è dovuta al fatto che l’artista, per varie considerazioni pratiche, di cui ci siamo in parte già occupati e che spiegheremo anche meglio adesso, deve adattarsi alla scelta… scelta degli altri.
Ed eccoci ai particolari per ciascuno di questi elementi. Il primo coefficiente individuale è costituito dal temperamento artistico. Temperamento poetico quando si è circondati senza posa da folle di spiriti e di sogni, temperamento drammatico quando si possiede l’istinto di cambiarci e di parlare trasfusi in altri corpi e in altre anime. Il che significa, rispettivamente, una maggiore tendenza alla descrizione lirica o all’azione vissuta, o per meglio dire, nel nostro caso, rivissuta.
Aggiungete il timbro, la tonalità, l’ampiezza, la agilità, la sostenutezza della voce che servono a giustificare le grandi distinzioni in voci liriche e drammatiche, forti e leggiere. Tutti elementi che il cantante deve avere presenti al suo giudizio per l’esatta valutazione delle sue possibilità nella scelta del repertorio, in modo da poter utilizzare al massimo rendimento e col minimo sforzo fisiologico e artistico le sue naturali disposizioni al canto.
Ma a questa fatale limitazione imposta da leggi naturali che nessuno può violare sotto pena delle più gravi conseguenze e delle più amate e ingrate sorprese, bisogna aggiungere, purtroppo, le altre e non meno gravi difficoltà a cui ci sottopongono le manchevolezze umane: usi, tradizioni, incongruenze, debolezze, imperfezioni, abusi, ecc., ecc.
Il primo criterio per ottenere questa giusta distribuzione di parti e questa opportuna scelta e utilizzazione di mezzi, sarebbe quello di far partecipare il cantante alla scelta delle opere che egli deve eseguire.
Invece, come ho già detto, tutti sono consultati a questo fine, impresari, direttori d’orchestra, amministratori, delegato degli enti pubblici, giornalisti, compositori, perfino semplici sovventori o amatori dell’arte lirica; tutti insomma, all’infuori degli esecutori.
Il che equivarrebbe, mi sembra, all’iniziativa di chi volesse stabilire i programmi delle compagnie di prosa senza interpellare i rispettivi capocomici. E pensare che, nel secolo scorso, gli autori componevano addirittura delle opere per vedersele rappresentare dall’uno o dall’altro cantante preferito! Adesso invece, nel caso migliore e più fortunato, l’artista arrivato, l’artista celebre di fama mondiale, pure essendo anche lui escluso dalla compilazione dei programmi, ha, come preferenza sugli altri, il privilegio di poter scegliere l’opera che intende cantare, in una determinata stagione.
Ma, ripeto, si tratta di mere è davvero quasi numerabili eccezioni che confermano la regola, terribile e inflessibile, a cui sono sottoposti tutti gli altri. Anche i non pochi che avrebbero attitudini e facoltà per salire e che si vedono preclusa questa possibilità per il necessario adattamento alla volontà degli altri.
Questo debbo dire perché io sento il dovere di difendere la mia categoria, tutta intera, di fronte a uno dei più gravi torti che le vengono inflitti quotidianamente, forse senza misurare il danno che ne deriva e le vere e proprie tragedie che ne sorgono.
Io non posso dimenticare, vedete, lo sfogo angoscioso di un mio collega meno fortunato che si rammaricava di essere condannato ormai per sempre alla esecuzione di opere che gli altri non volevano cantare e che erano le meno adatte, certo, per dar risalire le sue possibilità e i suoi mezzi artistici. Eppure debbo adattarmi a questo se voglio lavorare, caro Gigli, – mi confessava col pianto nella voce – e se non lavorassi come farei a dar da mangiare ai miei quattro bambini?
Indubbiamente l’artista arrivato, quello che è più completo e più scaltrito, trova il modo di evadere da questa costrizione. E anche se i programmi lo obbligano molto spesso ad una ripetizione di esecuzioni che finirebbero per diventare monotone, anche se perfette, ebbene: l’artista deve semplicemente richiamarsi alla vita; ed essere nella sua arte com’è varia la vita degli stessi personaggi pur nelle identiche situazioni.
Del resto, a ben guardare, nè il pubblico nè l’artista sono sempre nelle medesime condizioni di spirito e di sentimento anche di fronte ad una ripetuta uniformità di situazioni e di impressioni. Ed ecco dunque l’artista autorizzato, per rispetto alla propria personalità, a variare da una sera all’altra la sua sensibilità di interpretazione, e, quindi, di espressione; variando la frase sia nella passione che esprime, sia per la rispondenza che essa deve trovare nell’animo e nel consenso degli spettatori. I quali finiscono così per convincersi di essere in cospetto dell’arte viva, vera, variata com’è varia la vita.
Altrimenti l’arte stessa, anche quella dei più grandi esecutori, finisce per diventare maniera e peggio ancora manierismo; un difetto a cui soggiacciono anche artisti di fama mondiale, che hanno ripetuto per 20 anni la stessa frase e la stessa scena in una uniformità monotona per non dire esasperante.
Ma per fortuna questo difetto è, più che fra noi italiani, frequente negli artisti stranieri, per esempio nella scuola francese, le cui esecuzioni, studiate e curate fino nei più minuti particolari, fanno indubbiamente colpo a prima vista. Ma dopo un paio di volte, rivelano la loro uniformità stereotipa e quasi meccanica, finiscono per stuccare.
In ogni modo, è difficile assai che un artista della scuola francese vi prenda, vi sorprenda e vi commuova dopo la terza o la quarta audizione dello stesso personaggio e della stessa scena, che ritroverete identici, in una fissità automatica, anche dopo anni ed anni di esperienza.
Del resto questa manchevolezza molto sensibile e molto grave nel giudizio di noi italiani, che siamo un po’ tutti artisti nell’animo, è assai diffusa anche nelle altre scuole che pure cercano di imitarci.
Quelli che si salvano un poco di più sono i russi, perché, pure essendo educati alla scuola francese, si avvantaggiano, rispetto ai pericolosi modelli, per la lingua dolcissima e per la versatilità veramente sorprendente della loro natura.
Testo estratto da Confidenze, Italo Toscani, Roma, 1943. – Luca D’Annunzio.