Riflessioni sull'arte del canto

Beniamino Gigli:

Il cantante come esecutore e come creatore

Ho già posto la distinzione fra cantante ed artista ed è necessario partire da questo dato di fatto per orientarci nel seguito della nostra disamina.

Il cantante considerato come esecutore puro e semplice non si può dunque dire ancora un artista. Egli potrà essere perfetto nel tono e nella modulazione, nel registro e nell’ampiezza della sua voce, ma non per questo sarà ancora un artista nel vero senso della parola.

Per arrivare a tale grado di completa e perfetta efficienza bisogna infatti che l’artista interpreti il personaggio attraverso l’espressione musicale. E per raggiungere questo risultato debe tener presente sempre una grande ed elementare verità: cioè che mentre il canto serve, nelle sue forme elementari, popolari, primitive, ad attenuare le passioni, esprimendole, l’artista lirico debe col canto ravvivarle nell’animo degli spettatori e addirittura suscitarvele non vi fossero.

Ma, per ottenere un simile effetto, il cantante artista debe dimenticare il proprio sentimento (di amore, di dolore, di esultazione, di pena) per immedesimarsi in quello degli altri rendendo col canto quello che ciascun degli spettatori può sentire in alcune determinate circostanze e in quel particolare stato d’animo.

A tale effetto il sentimento espresso, significato, raggiunto, pure avendo una efficacia generica, debe assumere il colore, il tono, il volto, l’aspetto umano di un personaggio umano; tanto più efficace nella sua umanità quanto più sarà reso con evidenza, sia pure lirica, dall’abilità e dall’aderenza del cantante artista alla sua parte.

Nasce così il secondo e più importante tempo della nostra fatica; quello di creare il personaggio. Nessun libretto d’opera, nessuna regìa, nessuna messa in scena si occupa infatti eccessivamente di questo aspetto dello spettacolo, a cui non dedichiamo la necessaria cura nemmeno i compositori, i quali sentono la vicenda drammatica soltanto musicalmente, come più che naturale.

Il passaggio dall’astrazione alla realtà, dal generale al particolare, debe compierlo l’artista. E l’artista sarà tanto più efficace, più commovente, più drammatico e suggestivo sulla scena, quanto più sarà sereno nella vita.

Naturalmente bisogna intenderci bene su questo punto; perché serenità non significa davvero insensibilità, ma piuttosto forse di sensazione e insieme dominio di essa, emotività e volontà fuse insieme, tanto da poter comprendere bene tutti i sentimenti per renderli con uguale precisione, e tuttavia con la varietà e la diversità che la vita comporta.

I temperamenti eccessivamente nervosi ed impulsivi, gli egocentrici in una parola, riescono invece sulla scena troppo disuguali o troppo uniformi; nel senso che lasciano trasparire e prevalere la propria personalità anche nei personaggi rappresentati. Il che finisce per convincere di meno e per turbare di più la commozione degli spettatori, i quali hanno bisogno sì di sentire quel determinato sentimento o stato d’animo attraverso la voce prediletta, che è sempre la stessa, ma con inflessioni, modulazioni, vibrazioni che non sono soltanto quelle del divo che essi conoscono, ma possono essere ritenute come la vera voce e la vera espressione del personaggio i cui dolori e i cui amori, le cui passioni e le cui avventure sono quelle che, in quel determinato momento e in quella precisa scena, avvincono il loro interesse e dominano la loro sfera affettiva.

Il procedimento può essere analizzato e scomposto così: Innanzitutto noi dobbiamo avere davanti agli occhi ben chiara e palpabile la figura del personaggio da interpretare; Quindi dobbiamo spogliarci completamente delle nostre gioie e dei nostri dolori, delle nostre sensazioni e dei nostri sentimenti, in genere, per investirci invece delle sensazioni che la musica dà ed esprime i medesimi sentimenti applicati non soltanto alla persona immaginaria che vive sulla scena, ma anche il pubblico che ne segue le vicende.

Insomma il nostro stato d’animo dev’essere impregnato delle caratteristiche musicali del personaggio interpretato, la cui vitalità e la cui evidenza risultano pertanto adeguate alla relativa espressione musicale. Per esempio, il semplice cantante può illudersi di interpretare la figura del dottor Faust, nel Mefistofele, soltanto con le sue romanze, nonché coi relativi cambiamenti scenici ecco i mutamenti di truccatura, puramente e semplicemente, come farebbe con qualunque altro personaggio in qualunque altra opera, senza perdersi in eccessive indagini psicologiche.

Invece il cantante artista comprende che la complessa figura di Faust dev’essere resa attraverso una interpretazione assai diversa. Ammesso infatti che si tratta, nel primo atto, di un uomo ancor vegeto e vigoroso malgrado i suoi 50 55 anni, bisogna preparare l’atteggiamento, la figura e la voce al trapasso nel giovane delle scene successive; il giovane di 25 30 anni fremente per Margherita e quindi per Elena di un amore diversamente appassionato che debe dare il tono alla sua anima e alla sua voce. E guai a non rendere evidente anche nel canto l’ultimo trapasso; quel ritorno cioè alla <<più estrema età>> che pure si illumina di una così austera e solenne concezione della vita qual è quella che vibra nella romanza finale, e che debe apparire non soltanto nella figura del protagonista, ma nella sua voce mutevole di calore e di colore così come mutano i sentimenti e i moti dell’animo dal quale il canto sorge e si esprime…

E Cavaradossi, il bravo, innamorato, patriottico ed eroico Cavaradossi, come si fa a non indagarne la febbrile ansietà e a non sentirne lo spasimo accorato e frementi di fronte all’amore e alla morte? Nessuno, nè il compositore, nè il librettista, e nemmeno il drammaturgo originale, ci hanno detto se egli, volteriano ed incredulo come si lasci davvero convincere dall’illusione in cui la povera Tosca crede di aver raggiunto la duplice e definitiva salvezza. Eppure la distinzione è fondamentale nell’indagine e nei suoi risultati a seconda che si accetti per buona l’adesione dello sfortunato Cavaradossi alle parole della sua donna, o si ritenga che egli, appunto per la sua esperienza e per la sua convinzione nella trista per fida di Scarpia, non creda minimamente alla promessa onde il malvagio ha tentato fino all’ultimo le sue vittime.

Io, per parte mia, aderisco senz’altro alla seconda ipotesi, e appunto per questo reputo che bisogna dare al famoso grido <<Io muoio disperato>>  il sussulto di una disperazione assoluta è tremenda, che lo stesso ricordo dagli attimi di gioia e di dolcezza, ormai fuggiti per sempre, rendono ancora più cupa e più tragica. Niente, nessuna illusione, per l’uomo che guarda in faccia la fine di ogni speranza e che, tutt’al più, sorride pietosamente perché la sua innamorata non si accorga della tragedia che si avvicina. Poiché tu vuoi che io mi illuda con te, eccoti contenta, povera donna!… Ma io per mio conto ho dato l’addio alla vita e mi è rimasto sulle labbra en el cuore il tremendo sapore del nulla leopardiano…

Povero Cavaradossi! Io l’ho avuto sempre simpaticamente presente nelle mie ore più… difficili. Come quella volta al concorso per un impieguccio al comune di Roma; quando, di fronte alla difficoltà di un problema che portava via con sè ogni speranza di sistemazione immediata, sul foglio bianco dove non mi era riuscito di allineare neanche una cifra, tra acciai un pentagramma con le relative note pucciniane e le parole adattate alla mestizia del mio caso: “Svanì per sempre… il sogno mio d’impiego!”

Naturalmente questo sforzo di comprensione vale in tutti i casi e per tutti i personaggi. Non soltanto per l’immagini dolorose, passionali, drammatiche, ma anche per quelle sentimentali e anche per le altre più o meno comiche. Io, per esempio, mi sono innamorato del personaggio di Nemorino nell’Elisir d’amore, perchè mi è sempre sembrato che la sua comicità, nei riguardi del pubblico, derivi da quella profonda e invincibile timidi dita che è come un cilicio di cui egli vorrebbe liberarsi. E invece ne ristà sempre prigioniero, raggiungendo così i limiti di una ingenuità che confina col ridicolo, fino a che l’amore stesso, ossia il sentimento che lo rende in ordine più credulo, più impacciato e più goffo, non gli permette di riacquistare la sua piena e intera personalità essenzialmente lirica attraverso il famoso sospiro melodico: “Una furtiva lacrima…”

A questo punto gli spettatori che hanno riso di lui si commuovono e piangono col mio Nemorino, che mi risulta tanto più caro quanto più io so di averlo valorizzato e umanizzato nei riguardi del pubblico. E così il pubblico mi segue quando io interpreto a mio modo la famosa romanza della Marta. Non basta infatti cantare “Tu sparissi…”  ma bisogna dare l’impressione che il personaggio quasi sogni, in un accoramento che si allontana divisione in visione sulle ali della melodia. E la voce debe essere tutta  un rimpianto… come se anche noi  rimpiangessimo, in quell’attimo, un dolce sogno lontano. Non per nulla l’efficacia raggiunta e tanto più vibrante e  travolgente quanto più noi stessi, sulle scene, ci immedesimiamo, con la nostra stessa vita, alle parole che pronunciamo cantando, e nelle quali travasiamo il nostro sentimento.

Io, vedete, credo di non aver mai cantato  tanto bene nella Lucia la romanza finale “Tu che  a Dio spiegati l’ali” come quella sera in cui seppi che mia Madre stava per morire… e forse mentre io cantavo Essa spiegava verso il trono di Dio il candido volo della sua anima immacolata. Avrei potuto piangere anch’io, è vero, come un qualunque altro  figliolo; ma allora le mie lacrime sarebbero state in lagrime santi, limitate però a me stesso e alla mia pena. Ed ecco al contrario che, per divina virtù dell’arte, il mio pianto anziché chiudermi la gola in un singhiozzo senza armonia, diventava l’espressione canora del dolore di tutte le anime afflitte, richiamando e suscitando nel cuore di ciascun spettatore il fascino e il rimpianto di un suo intimo, caro, infinito dolore…

Testo estratto da Confidenze, Italo Toscani, Roma, 1943. – Luca D’Annunzio.

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