Enrico Delle Sedie:
Ortoepia e prosodia
Non v’ha dizione corretta senza buona pronuncia, nè buona pronuncia senza articolazione chiara e nitida. Per ben articolare è d’uopo dare alle consonanti il loro valore preciso, alle vocali il loro vero timbro, alle parole il giusto accento.
Una buona pronuncia è potentissimo ausilio della musica vocale, perocchè dà alla voce vibrazione ed espressione. Gli è perciò che raccomandiamo agli allievi lo studio dei principii di ortoepia e prosodia italiana, che, insegnando appunto le regole della retta pronuncia, tornano di somma efficacia nell’arte del canto.
Il farne uno studio completo varcherebbe i confini di questo lavoro; epperò ci limiteremo ad alcune avvertenze, mercè le quali possa l’allievo evitare i difetti che più comunemente s’incontrano nella pronuncia.
Fra questi uno dei principali è l’uso dell’ U stretto o francese in luogo dell’ U toscano; epperò si dovrà assolutamente schivare, badando tuttavia di non cader nell’eccesso opposto, quello cioè di far sentire quasi un’ O chiuso in luogo del vero U naturale.
Così pure sarà d’uopo distinguere bene l’ E e l’ O chiusa dall’ O e dall’ E aperta, onde non avvenga di emettere l’una per l’altra, confondendo il significato delle parole. Esempi: Bei coll’ e chiuso per bevi verbo, e bei coll’ e aperta per belli aggettivo; colto coll’ o chiuso derivato dal nome coltura, per colto coll’ o aperto voce del verbo cogliere, e così via.
Il suono poi delle vocali a, o ed e non dovrà mai essere esageratamente aperto o chiuso, perocchè se il primo riesce sempre disgustoso all’udito, il secondo cambierebbe quasi la natura della vocale, come accennammo per l’ u.
Si badi infine nel pronunciare le vocali i ed u di non cadere nella j, o di aggiungervi un v come fanno molti che pronunciano mi–jo invece di mio e tu–vo invece di tuo.
Alle volte due vocali non formano che una sillaba sola, e questa si chiama dittongo. Le due vocali allora si pronunciano in un sol fiato, come un suono solo, per esempio: au in aura, eu in euro, uo in uomo, iu in giuro, oi in oibò.
Anche tre vocali possono formare alcuna volta una sillaba sola, che si dice trittongo, come iei in miei, uoi in tuoi, iuo in giuoco.
In questi casi la voce si posa sopra un solo suono, il quale si può chiamare vocale dominante; le altre vocali si odono appena di sfuggita.
La vocale dominante nei dittonghi ora è la prima, ora la seconda. Nell’ au di aura la voce si manda fuori solamente per l’ a; l’ u si fa sentire dopo sfuggitamente col restringimento delle labbra, facendo uso del fiato medesimo che già servì per l’ a.
Al contrario nell’ uo di uomo si fa sentire lievemente l’ u e la voce si ferma in seguito sull’ o.
Nei trittonghi la vocale dominante ora è nel mezzo, come in miei, tuoi, ora in fine, come in giuo–co.
Allorchè nel proferire due o tre vocali di seguito si rinnova per ciascuna il fiato, esse non formano più dittongo, ma fanno altrettante sillabe separate, come pa-u-ra, li–u–to, ecc.
Passando alle consonanti poniamo l’allievo sull’avviso onde si guardi:
- Dall’indebito loro raddopiamento o scemamento, che possono cangiare affatto il senso della parola; veggansi a mo’ d’esempio fatto o fato, accetto e aceto, spesso e speso, ferro e fero, e così via;
- Dall’alterazione del suono delle consonanti c, g, gn, gl, ove si pronuncino aspre in luogo di dolci o viceversa;
- Dal suono troppo dolce della z scambiandola coll’ s, o troppo duro di quest’ultima confondendola colla z;
- Dalla vibrazione troppo prolungata della r, che porterebbe nel di lei suono rigidezza ed esagerazione;
- Dall’articolare ce, ci, come sce, sci, dicendo per esempio: non sci–era, non sci–è stato, in luogo di non c’era, non ci è stato; e ca, che, chi, co, cu, con un’aspirazione davanti senza far sentire il c, pronunziando, per esempio, he hosa, invece di che cosa.
Senonchè la pronuncia corretta delle parole non istà tutta nella perfetta emissione delle vocali e nell’articolazione chiara e precisa delle consonanti, ma è necessario che l’accento tonico sia anche applicato a suo posto.
Senza spingerci alla ricerca dell’accento tonico nelle origini della nostra lingua, ci basta constatare che in ogni parola v’ha una sillaba sulla quale, a preferenza delle altre, va a cadere la posa della voce, sillaba che perciò viene pronunciata con suono più vibrato e prolungato.
L’accento, o la posa della voce è il vero reggitore della parola, la quale senza di ciò non avrebbe nè vita, nè espressione, nè armonia.
Ѐ pressocchè impossibile nel nostro idioma ridurre a regole determinate la posizione dell’accento tonico nelle parole, laonde sarà d’uopo riportarsi all’uso della lingua parlata.
Solo osserveremo, che, per riguardo all’accento, le parole si dividono in: Piane: quelle cioè nelle quali l’accento cade sulla penultima sillaba: spàda, amòre, ecc.; Tronche: quelle nelle quali cade sull’ultima: farò, città, ecc.; Sdrucciole, bisdrucciole, e così via, se l’accento cade sulla terz’ultima, quart’ultima, ecc.: fàcile, òperano, ecc.
In proposito avvertiremo poi: In primo luogo che quando l’accento trovasi sull’ultima vocale, questa si deve pronunziare con maggior forza e con un certo alzamento della voce. La differenza, per esempio, fra amo e amò, arrivo ed arrivò è sensibilissima. – Ѐ però da notare che alcuni fan sentire tale differenza anche più che non si convenga, pronunciando le ultime vocali non accentate così debolmente che si ha pena ad udirle. Converrà pertanto avvezzarsi a spiccarle anch’esse distintamente, abituandosi a proferire l’ o e l’ è in fine di parola non chiuse o strette, ma larghe ed aperte.
In secondo luogo che nelle parole piane e nelle sdrucciole la vocale su cui si ferma la voce, comunemente si proferisce con minor forza e con minor alzamento di tono, ma invece si prolunga di più, come: Ama–a–to, ama–a–bile.
In terzo luogo che le vocali seguite da doppia consonante della medesima specie, prolungano invece o la consonante medesima se è sonora, come per esempio, col–lera, o vi frappongono un piccolo silenzio se è muta come: ap . . . . pagare.
In quarto luogo che la stessa regola si tiene quando la vocale è seguita da due consonanti di diversa specie, di cui una a lei si congiunga. La vocale allora si pronuncia prestamente, e la sospensione di voce si fa in cambio sulla consonante, a cui si unisce un e muta quasi impercettibile, come: bane–do, pare–to, ecc.
Per ultimo faremo osservare come, allorchè s’incontrino nel discorso due parole, la prima delle quali finisce e la seconda principia per vocale, accada qualche volta di dover elidere la vocale della prima, o di pronunciare ambo le vocali unite in una sola sillaba, quasi formassero dittongo fra di loro. Nella poesia tale uso si converte di frequente in necessità per le esigenze del metro, dell’accentuazione e dell’armonia del verso. Citiamo ad esempio due versi dell’Ottavia di Alfieri:
Per me il vederlo d’altra donna amante
Ѐ il rio dolor che ogni dolor sorpassa.
Nello scandere questi versi occorrerà di unire la vocale della parola me, colla vocale i del seguente il; di elidere l’ a della parola donna; di unire l’ Ѐ che principia il secondo verso colla vocale i del seguente il, e l’ e del che coll’ o dell’ ogni. Nel declamarli poi l’ i dell’ il si dovrà emettere sfuggitamente; dei due a di donna e amante se ne farà uno solo un po’ prolungato; l’ i del secondo il sarà pure sorvolato, e si eliderà completamente con l’ è del che, pronunciando che ogni come cho–gni.
Date queste poche norme, raccomandiamo all’artista di canto la chiarezza e precisione della pronuncia; le quali, se da un lato aiutano in lui l’emissione della voce, dall’altro facilitano all’uditore l’intelligenza delle parole e del pensiero del poeta. – Si guardi però bene il cantante dal cadere in una pronuncia esagerata, sempre di cattivissimo effetto e ridicola, specialmente nei pezzi di agilità.
Demostene, il principe degli oratori, interpellato qual fosse nell’arte della parola il primo requisito, rispose: la pronuncia; chiesto poi qual fosse il secondo ed il terzo ripetè di bel nuovo: la pronuncia; dal che si rileva com’egli la giudicasse dote principale ed essenziale dell’oratore. E per vero non si può a meno di accettare pienamente quella opinione, quando si rifletta che a costituire il bel dire, tanto nell’oratore quanto nell’attore, devono concorrere tre condizioni assolute, formanti fra di loro un solo nesso. Esse sono:
- Piacere all’orecchio con una perfetta articolazione;
- Rendere il discorso chiaro ed intelligibile colla corretta distinzione delle frasi, degli accenti e delle inflessioni;
- Convincere l’intelletto coll’espressione esatta del pensiero dell’autore.
Il difetto di alcuna di queste condizioni lascierebbe una lacuna tale da rendere impossibile la buona dizione.
Certi lavori, assai pregevoli come composizione musicale, presentano alle volte errori prosodici, cui il compositore si lasciò trascinare o dalla melodia o dalle esigenze della forma; tal fiata l’accento tonico non è strettamente osservato, talaltra l’elisione o la unione delle vocali non è praticabile, dimodochè si corre tutto il rischio di non essere compresi. Nulla di più svantaggioso per l’artista, il quale spesso porta da solo il peso di codesti errori. Una perfetta conoscenza della buona dizione lo porrà in grado di correggerli; e, senza svisare il pensiero melodico del compositore, egli potrà aggiungere o sopprimere, allungare od accorciare qualche nota per servire convenientemente alla prosodia. – Questa operazione però è assai delicata, e richiede in chi la pratica molto gusto e perspicacia non comune.
Qualche volta ciò riesce perfino impossibile; tali eccezioni tuttavia non devono arrestare lo studio perseverante dell’artista, e se non gli vien fatto di correggere la prosodia di una parola resa difettosa dall’accento della melodia, egli procurerà di supplirla con un’altra del medesimo significato. Saranno però in simili casi a preferirsi le trasposizioni, semprechè non distruggano l’armonia e la misura del verso.
Testo estratto da Arte e fisiologia del canto, Enrico Delle Sedie, Milano, 1876. – Luca D’Annunzio.