Riflessioni sull'arte del canto

Filippo Coletti:

L’arte melodrammatica italiana

Il dì 26 del passato febbraio, nella discussione sul bilancio di prima previsione del Ministero della pubblica istruzione, l’onorevole Bovio pronunciò alla Camera un discorso in favore dell’arte musicale. Egli, deplorando la decadenza del melodramma, stimolò il Ministero ad incoraggiare la musica italiana sopraffatta dalla pornografia delle operette buffe straniere, e con slancio di patria carità gridò: « Fuori dal tempio musicale italiano i pubblici lenoni, o si chiamino maestri, impresari, o istrioni! Dove respiriamo ancora l’alito di Rossini, di Donizetti e di Bellini non ci è posto per gli Offenbach, i Lecoq e loro imitatori! Più sono le glorie d’Italia e più dobbiamo esserne gelosi, e più vergognare di qualunque scadimento ».

A queste nobili e patriottiche parole, per le quali faccio sincero e pubblico ringraziamento all’on. Bovio, rispose l’on. Martini relatore del bilancio di quel Ministero e disse che provvedere all’uopo era impossibile per misura economica e per inefficacia di mezzi. Egli basò il suo ragionare sulla corruzione degl’italiani perchè «gl’italiani tollerano quello che gl’inglesi non vogliono e non possono tollerare ».

È sempre la stessa storia: se in Italia si deplora un male, ci si risponde che, o esso è generale alle altre nazioni, o che ce lo meritiamo perchè siamo corrotti: se desideriamo un bene poi ci dicono, che l’Italia nazione recentemente costituita ad unità, non può ottenerlo che col trascorrere dei secoli!…Quindi il deputato Martini domandò « come si fa? »

La Palestra musicale di Roma gli rispose: si stabilissero due premi governativi ogni anno; uno per quella commedia musicale che fosse, in seguito a concorso, giudicata migliore; l’altro pel compositore che da un secondo concorso risultasse aver meglio musicato la commedia premiata.

Questo provvedimento sarebbe, a mio credere, utilissimo, ma dovrebbe esser preceduto da un altro, quello cioè della riforma delle scuole negl’istituti musicali dipendenti dalla sorveglianza governativa.

Lo studio della composizione musicale ha smarrito la tradizione della nostra grande scuola la quale, col tirocinio delle armonie e del contrappunto, mirava precipuamente a sviluppare il nostro genio melodico. In questo mio scritto procurerò di richiamare l’attenzione dei docenti e degli studiosi a più sane idee, e far loro comprendere che per la via che essi battono non potranno raggiungere la desiata meta.

_______

Avviene nel mondo morale quello che accade nel mondo fisico. Quando un membro è malsano ha bisogno di eroici rimedi. Se si vuole che un albero avaro di frutti riacquisti la sua primiera floridezza ed ubertà, è d’uopo curarlo col ferro e col fuoco. Così quando un’arte è fuorviata non può essere ricondotta sul retto sentiero che dalla nuda esposizione della verità. Il male che uccide la musica italiana è nella scuola, la quale ha incautamente abbandonato le sue vecchie tradizioni. Dirò dunque senza riguardi il mio parere nella speranza che coglierò nel segno.

Quando uno scrittore straniero, molti anni or sono, chiamò l’Italia la terra dei morti, non considerò che gl’italiani allora oppressi da lunga e secolare schiavitù, pure percorrevano il mondo trionfalmente arricchendo la patria di nuova gloria nell’arte musicale, e provavano così non essere in loro estinta la forza vitale, se la manifestavano tanto splendidamente nella sola disciplina in cui era loro permesso manifestarla.

Come gli antichi romani percorsero il mondo, e lo assoggettarono alle leggi ed ai costumi della civiltà latina, così pure i figli della moderna Italia lo percorsero e conquistarono all’arte musicale. Fu una mondiale invasione, ma pacifica. Essi nelle loro peregrinazioni mantennero sempre viva la memoria del nome italiano, e colle pure lusinghe dell’arte destarono la simpatia dei popoli per la nostra causa nazionale. È per virtù precipua della musica se il nome d’Italia non fu dimenticato, ed essa venne considerata moralmente come nazione nei tempi più nefasti alla sua unità e libertà. Giunto il tempo della riscossa e della redenzione, la simpatia artistica divenne simpatia politica, e fummo quindi ammessi nel consorzio europeo quali vecchie conoscenze.

Ora poi il nostro primato musicale, che tanto giovò alla fortuna d’Italia, l’abbiamo perduto perchè ci siamo adattati a far plauso ed imitare servilmente coloro, i quali hanno impudentemente affermato che Rossini, l’autore immortale del Guglielmo Tell, non sapeva di musica, che Donizetti e Bellini erano compositori da chitarra, che Verdi, il più potente genio dell’epoca moderna, rappresenta la espressione vera della volgarità dell’arte italiana. Questi spropositi colossali sono stati ripetuti anche in Italia dai partigiani della moderna scuola tedesca, i quali non arrossirono unirsi ad alcuni stranieri nel denigrare la fama dei nostri grandi maestri. Da tale abberrazione nacque l’odierna confusione delle nostre idee, il pervertimenìo del gusto, e la decadenza dell’arte.

Una scuola povera d’inventive melodiache, non potendo competere con noi, ha mirato a spegnere il nostro genio insinuando un errore pernicioso e letale cioè, che il canto italiano e le forme della nostra musica non siano il mezzo migliore per la manifestazione delle passioni che vengono svolte nel melodramma, e che, la dottrina delle armonie e dell’istrumentale, sia il tramite più efficace e vero per la trasmissione dei concetti musicali.

Quest’affermativa è più antica di quello che si crede, perchè costituiva la base del rimprovero fatto al grande Mozart, cioè, di aver egli guastato la musica tedesca italianizzandola. Molti giovani maestri sono caduti in questo errore anche in Italia, e si sono dati, con loro grande disdoro e danno, alla servile imitazione di alcune stravaganze di una moderna scuola, e affascinati dall’orgoglio della dottrina hanno sconfessato la buona tradizione della scuola patria, il natio genio del canto, e così sono giunti alla presente decadenza.

I giovani studenti credono che le dotte armonie e gli artifizi dell’orchestra bastino a tutto, ma quando sono alla prova pratica del loro sapere l’illusione svanisce, e l’eco degli applausi loro tributati dai partigiani e dagli amici si fa muto, e le loro opere cadono nell’oblio dopo le prime rappresentazioni. La produzione di tali opere è frequente in Italia, ma non accresce il patrimonio della nostra musica. Noi siam divenuti poverissimi nei due rami più essenziali cioè, composizione e canto. Finchè l’Italia ebbe dovizia di compositori geniali e di buoni cantanti, la critica e la detrazione straniera per nulla poteva commuoverci. Venuto però il tempo in cui i nostri grandi maestri tacquero, i giovani usciti dai nostri licei musicali avendo improvvidamente abbandonato la vecchia scuola tradizionale, invece di opere melodrammatiche, produssero il mostruoso aborto dell’opera-ballo alla foggia straniera. Continuino pure, se lor piace, la dottissima noiosa melopea; siano però avvertiti che per quella via non raccoglieranno, come i vecchi maestri, ligi sempre alla loro scuola, applausi, ricchezze e fiori, ma sbadigli, miseria e spine. Rossini, Donizetti, Bellini ed altri dell’antica scuola vivranno immortali nelle loro opere, essi, i moderni maestri, moriranno di morte prematura, e il volo dell’oblio ne ricoprirà il nome e le opere.

Mi si domanderà per qual ragione questo genere di musica è in voga nelle scuole?. Rispondo: nei docenti è per difetto di italianità e di amor proprio, negli scolari perchè ogni mediocre talento musicale può facilmente produrre musica di questo genere purchè voglia tenacemente studiare, anzi sgobbare. Io riconosco la necessità di uno studio più profondo dell’armonia, riconosco il progresso fatto nella strumentazione applicata all’accompagnamento del canto, ma sostengo che il genio inventivo, l’ispirazione, non può essere manifestata che colla melodia, e col canto; il rimanente è studio, é calcolo. Mi auguro dunque che i giovani maestri italiani torneranno alle regole infallibili della nostra scuola.

Giuseppe Verdi scrisse anni or sono al benemerito maestro Florimo, che per fare il nuovo in musica è d’uopo tornare all’antico. Torniamo dunque all’antico, cioè al puro canto italiano, ed agli esempi che ci lasciarono i nostri antichi maestri. L’Italia nella scienza delle armonie fu pure maestra alle altre nazioni. Lo Scarlatti, il Porpora, il Guglielmi, il Clementi, il Cherubini, lo Spontini ed altri, peregrinarono per l’Europa civile profondendo ovunque i tesori della scienza musicale italiana. Noi non siamo nè nuovi nè retrivi alla scienza tanto decantata dai moderni, purchè essa non ci faccia degenerare dalla nostra natura melodica. L’odierna imitazione della scuola tedesca, eliminando le forme e la condotta del canto italiano, uccide il nostro genio speciale, quindi è per noi di vitale interesse combatterla.

Il nuovo in arte non nasce di getto ma col concorso di molti intelletti, le cui idee fuse fra loro possono formare un insieme che stabilisca il tipo del nuovo e del bello relativo alle esigenze dell’epoca. Perciò il progresso, cui dobbiamo noi mirare, è la fusione delle varie scuole iniziata da Rossini col Guglielmo Tell, continuata da Meyerbeer in tutte le sue opere, e tentata da Verdi nell’Aida. Volendo poi imitare una speciale scuola straniera, la quale, per armonia, per effetti orchestrali, per eleganza di forme e melodia, si approssima alla nostra, io preferirei quella francese di Gounod. Al di là della linea tracciata dai predetti si cade nel falso della esagerazione, e nel deforme artificioso del barocchismo.

La legge del progresso è oggi universalmente riconosciuta per vera, e quindi noi l’ammiriamo tutti e vogliamo seguirne l’impulso da qualsiasi scuola ci venga, ma dobbiamo rifuggire dalle servili imitazioni, se ci è cara la conservazione del nostro carattere nazionale artistico. Ciò facendo accadrà che gli anelli spezzati della tradizione della nostra grande scuola saranno riuniti, e quando verrà l’uomo di genio, che l’Italia impazientemente attende, esso troverà allestito il vecchio e il nuovo tecnicismo, e correrà alla conquista di nuovi ideali artistici. Intanto cura nostra precipua sia il ristabilimento delle buone scuole di canto, base fondamentale della musica italiana.

È inutile illudersi: i nostri istituti, le nostre scuole private non producono più buoni cantanti. Quelli che si distinguono por metodo e per voce sono in maggior parte stranieri, quindi essendo merce d’importazione costa cara, e non è possibile averla nelle presenti strettezze finanziarie in cui si trovano le imprese teatrali italiano, alle quali, eccettuato pochissime, sono state tolte le sovvenzioni governative o municipali. Il pubblico supplisce in parte, ma solo nelle grandi città, alle spese degli spettacoli musicali pagandole a caro prezzo, il popolo però di media fortuna, per distrarsi dalle cure del giorno, è obbligato a passare le serate nei teatri d’operetta buffa e licenziosa con grave detrimento dell’arte e della morale.

Gl’italiani saranno forse corrotti, come afferma l’onorevole Martini; ma di chi è la colpa?.. Da tutto il contesto di questo scritto si potrà facilmente arguire. Perchè il popolo possa assistere alle rappresentazioni dell’arte vera, trarne divertimento e civiltà, è necessario, oltre agl’incoraggiamenti materiali, far sorvegliare le scuole, riformarle, e dare gli ordini più severi per la conservazione delle discipline didattiche tradizionali sanzionate da tanti splendidi risultati. Una nuova generazione di musicisti, italianamente educata, varrebbe a far rifiorire l’arte e le imprese teatrali, perchè i teatri di provincia, frequentemente chiusi per mancanza di sovvenzione, sarebbero riaperti e gl’intraprenditori vi troverebbero il loro conto nella mitezza delle retribuzioni ad artisti più esperti in arte, e nella facilità di poter presentare al pubblico opere ben eseguite, attraenti e di buon gusto. Qui mi cade in acconcio far osservare che i teatri di provincia non presentando i vantaggi delle città popolose, ove si accorre in folla agli spettacoli, dovrebbero essere specialmente dedicati alle rappresentazioni delle opere semiserie, bellissime del vecchio repertorio, o di altre dello stesso genere scritte dai giovani maestri, i quali farebbero, come per lo passato, i loro primi esperimenti in un genere di musica più leggiero e più atto alla pratica del melodramma. Sarebbe così evitato il danno dei giovani, che appena lasciato le panche della scuola si gettano imprudentemente nel mare magno delle grandi scene, senza aver prima potuto sperimentare le loro forze in teatri ed opere di minore importanza. Questo temperamento gioverebbe a tutti: ai maestri come tirocinio; ai cantanti come pratica e graduale assuefazione alle fatiche della scena; agl’impresari per le ragioni dianzi esposte; infine al pubblico che, potendo con poca spesa udire opere allegre, eleganti e melodiche, sarebbe preso d’amore per le rappresentazioni musicali e le frequenterebbe con vantaggio di tutti.

A dimostrazione più chiara ed esplicita della necessità d’una riforma nelle scuole di canto farò osservare, che negli antichi istituti musicali il regolamento disciplinare esigeva che tutti indistintamente gli allievi, a qualsiasi ramo di musica si dedicassero, fossero obbligati a frequentare le scuole di canto, non già di canto corale educativo che poco o nulla conclude artisticamente, ma al tirocinio delle vario classi di solfeggio cantato e di perfezionamento, senza riguardare se avessero o no una voce adatta a dedicarsi esclusivamente alla carriera del cantante. La inosservanza di tale regolamento disciplinare è stata la cagione vera della deficienza dei maestri di canto. Questo studio era una volta stimato necessario a tutti; ai maestri compositori per poterlo insegnare e scrivere regolarmente senza arrecar danno alle voci; ai cantanti per la loro specialità, agl’istrumentisti per applicarlo ai loro strumenti.

Inoltre la vecchia scuola esigeva che gli studiosi di composizione muovessero i primi passi nella inventiva e nella condotta di un pezzo vocale componendo musica sacra. Le parole di argomento religioso, il cui concetto è sempre ascetico, o mistico, li obbligavano a cercare le melodie all’infuori delle passioni del dramma umano, adoperando all’uopo le regole puramente scolastiche del metro, del ritmo, della forma e della condotta, sviluppando la melodia per mezzo degl’ingrandimenti e accorciamenti della frase, delle antitesi connesse alla premessa, degli allargamenti per mezzo di ripetizione sugli stessi gradi, o su altri in direzione contraria. La loro fantasia, non potendo applicarsi ad esprimere le passioni umane della vita reale, era costretta a rivolgersi all’accento ed al senso della idea, e svolgersi secondo la tecnica e le regole dell’arte. La melodia veniva composta facendo progredire la voce per gradi e per salti che avessero fra loro buona relazione : gli accordi erano guidati dal buon andamento del basso fondamentale e concatenati fra loro. Le dotte armonie non erano soltanto premeditate e a forza volute, ma fluivano dal sentimento della idea che le ispirava.

Il canto nella vecchia scuola procedeva come un discorso; aveva i suoi incisi, le sue frasi, e periodi di numero simmetrico: la seconda parte del discorso melodico poi, non solo stava in attinenza colla prima parte, ma anche le parti accessorie (secondarie) mostravano una certa analogia fra loro, e da tale corrispondenza ne risultava la bella unità e varietà delle composizioni. Taluni pretendono che il ritmo del canto italiano nuoccia alla espressione del sentimento, e perciò il canto è stato ora ridotto alla melopea del recitativo misurato. Questo processo sarà forse molto scientifico, ma, a mio parere, è anche molto noioso e mi fa l’effetto della nasale e gutturale salmodia dei frati cappuccini. Il metodo della nostra vecchia scuola melodica era più sapiente del moderno, e fu il fattore del nostro primato nella musica vocale, perchè sviluppava largamente il canto educando il talento degli allievi a condurre ed ingrandire un concetto. Ed è perciò che il celebre maestro Mercadante diceva: « Datemi un motivo nuovo di due battuto e vi comporrò un pezzo di musica ». Questo suo detto racchiudeva un doppio significato: 1) che la composizione di una melodia dipende dal genio, cioè da una innata e misteriosa ispirazione; 2) che la disciplina scolastica l’esplica, avvalora e compie. Tale processo gl’italiani non l’hanno imparato dalla scuola straniera, ma l’hanno inventato da tempo assai remoto.

Ora insistendo sulla necessità del ritorno alla composizione dell’opera semiseria lo faccio per osservare che essa racchiude nella sua cerchia i caratteri buffi o comici, sentimentali o patetici, dignitosi o truci, e perciò avvezza la mente del compositore a spaziare nel vasto campo dell’arte per la ricerca di accenti, ritmi ed espressioni varie, e ad intrecciare i canti a seconda ed in relazione dello svolgimento dell’azione drammatica. Dall’opera semiseria mossero i primi passi i grandi maestri che ci diedero Guglielmo Tell, Norma, Lucia, Nabucco, Saffo, Vestale, ecc.

La condotta d’un pezzo concertato o finale d’atto era considerata, nella scuola antica, come un piano di battaglia in cui le mosso parziali o riunite delle parti dovevano convergere ad un sol punto, quello cioè di esprimere la situazione drammatica. La melodia era regolata collo svolgimento dell’armonia, e facendo servire la varietà dei personaggi e il loro carattere speciale alla unità dell’azione rappresentata, non si menomava l’importanza delle figure situate in primo piano (mi si perdoni la frase da pittore), anzi si aumentava coi lumi di riverbero delle parti accessorie e secondarie. Un paragone farà meglio comprendere questa mia idea. Verdi, gloria vivente dell’arte italiana, ha dato saggio meraviglioso di tale congegno anche in opera seria. Egli nel quartetto del Rigoletto, in cui i quattro personaggi esprimono idee e passioni a loro speciali, fece nascere dal contrasto e avvicendamento delle parti di carattere diametralmente opposte fra loro, una tale unità di concetto da destare lo stupore del pubblico, e far credere quasi alla verità della finzione, il che è un prodigio in arte d’imitazione e convenzione. Se nell’ottenere quel risultato l’ispirazione del Verdi ha la parte principale, non potrà tuttavia negarsi il grandissimo merito della scuola che l’educò; onde sempre più apparisce vero il suo detto che per fare il nuovo è d’uopo tornare all’antico, cioè, ai modelli e alle regole scolastiche degli antichi maestri: ed è perciò ch’egli raccomandò lo studio della fuga, la quale inizia e conduce gli studiosi al movimento e svolgimento della nota in ogni senso e modo. Gli studi che anticamente preparavano alla composizione del melodramma erano tali da togliere ai futuri maestri ogni dubbio circa la via da seguire. La pratica certezza dei buoni risultati ottenuti dai famosi docenti nel seguire le regole da loro inculcato li rendeva coraggiosi e sicuri. Ora invece regna l’incertezza in tutto perchè non si ha più fede nelle antiche regole didattiche e si vagheggia la novità della scuola cosi detta dell’avvenire. Si può concedere al sommo maestro che le diede il nome l’ardimento della novità, perchè la potenza del suo ingegno si palesa corroborata da studi profondi: studi però che a mio credere, soffocano la scintilla del suo genio: i suoi imitatori non avendo le sue qualità ne esagerano i difetti e così cadono nella caricatura.

I servili imitatori della odierna musica tedesca credono supplire al vuoto delle loro idee melodiche colla scienza delle armonie e degli effetti orchestrali, ma invece di raccogliere l’ammirazione e il rispetto che imponeva il Wagner, errano in un mondo senza luce e senza vita e quindi muovono a compassione. Le loro composizioni sono un caos in cui la mente degli uditori si perde. I padri dell’antica scuola tedesca, il cui genio ha lasciato tracce luminose di bellezza, non si servirono dei mezzi della scuola moderna, smaniosa di novità, a discapito del buon gusto e del buon senso, ma trattarono l’arte come discorso sensato e nobile, rispettando sempre le buone tradizioni.

Bach, Handel, Beethoven, Haydn, Mozart, sono stati sempre studiati e ammirati anche in Italia con sommo vantaggio dell’arte italiana: non possiamo dire altrettanto della moderna scuola tedesca la quale può esser paragonata ad un’edificio di cattivissimo gusto architettonico, o ad una piramide rovesciata colla punta in terra. La punta della piramide, rappresentante il concetto melodico, è sotterra, quindi invisibile: la mostruosa base, rappresentante l’armonia e l’accompagnamento dell’orchestra, domina colla sua smisurata mole il canto, l’opprime, lo annienta, e quindi il discorso musicale è incomprensibile, e non può piacere che ai fanatici visionari amanti di novità a qualsiasi prezzo. Sotto il punto di vista della utilità dell’arte musicale la odierna musica non ha più la missione di commuovere, ingentilire e ricreare lo spirito affannato dalle miserie della nostra vita materiale. Aver affidato questa missione all’artifizio delle armonie, le quali hanno usurpato il posto della melodia vera, cioè di forma italiana, è non solo un’aberrazione dannosa ma anche ridicola.

Chi volesse esaminare praticamente il processo adoperato dai moderni maestri per la manifestazione, dei loro concetti riconoscerebbe facilmente la puerilità dei loro trovati. Il frequente e quasi continuo il tremolo dei violini accompagnato dai flauti nei loro suoni più acuti; i movimenti dei contrabbassi imitanti il rumore di una sega che addenta il legno; il clamore delle trombe, il muggito dei tromboni, il grugnito dei fagotti armonizzanti coi suoni delle viole, dei violoncelli e degli oboi costituiscono il fondo principale dell’arsenale degli effetti orchestrali. Con tali mezzi meccanici, materiali, i moderni compositori pretendono innalzarsi alle più alte sfere dell’ideale e di esprimere i concetti della poesia e del melodramma. È una vana illusione la loro, che la descrittiva orchestrale adoperata quasi sempre nella identica maniera possa valere ad esprimere, per esempio, le apparizioni delle ombre dei trapassati, quelle di ninfe e di geni, il vogare di una barca, il guizzare dei pesci nell’onda, gl’incanti della magia, il volo degli uccelli, lo stormir delle foglie, il languore dei moribondi ed ogni altro fatto della natura e della vita fisica e morale.

Le passioni del cuore, dolci, concitate e profonde non possono essere manifestale che colla voce dell’uomo ed è perciò, che la parte vocale deve essere la principale e dominare nel melodramma. Le combinazioni orchestrali d’accompagnamento debbono aiutare a mettere in rilievo la voce, non già opprimerla. Non voglio con ciò menomare l’importanza della parte strumentale, e riconosco ben volentieri il progresso che ha fatto e l’utilità che arreca. So che la scintilla del genio può rivelarsi anche nelle studiate combinazioni armoniche della sinfonia, ma sostengo che la sola parte vocale ha la potenza d’ingentilire il cuore e innalzare la mente alla percezione dell’ideale. La descrizione sinfonica può rappresentare il mondo della materia; il mondo dello spirito non può essere rappresentato che dalla voce umana. La parola è il tramite unicamente efficace per la manifestazione delle idee di cui la mente umana è capace Il voler affidare, ripeto, questa missione all’orchestra, è un errore grossolano perniciosissimo all’arte e indegno della nostra grande scuola musicale che in tali discipline è stata inventrice e maestra.

In una lettera cortesissima di un dotto maestro alemanno, leggo le seguenti parole: «Spero che il tempo non sia lontano in cui l’arte musicale non sarà divisa da montagne e barriere doganali, ma invece troverà una patria dappertutto dove abitano uomini colti e di civile animo». Dal modo benigno con cui furono accolti in Italia alcuni lavori della moderna scuola tedesca, e dall’ammirazione che hanno sempre destato in noi i capolavori della musica dei Beethoven, dei Mozart, degli Haydn e degli Handel si può arguire che il bello, il sublime, il vero è stato sempre degnamente accolto in Italia. «Le montagne e le barriere doganali» non vogliamo frapporle alla musica straniera, ma non ci stancheremo di proclamare l’eccellenza della nostra scuola, perchè non possiamo rinunziare al ricco patrimonio artistico lasciatoci per, eredità dagli avi nostri gloriosi.

Ho motivo di affermare che la scintilla del genio italiano non è spenta, e che l’antico valor non è ancor morto, ma mi addolora il vedere come molti giovani maestri avrebbero potuto creare splendide manifestazioni di questo genio, se l’ambiente musicale che li circonda, e che ha fatto la loro educazione, fosse stato rischiarato da regole più certe e confacenti all’indole della nazione, quali furono quelle che ordinarono la ispirazione dei nostri grandi.

A raggiungere nuovamente questo intento basta solo ritornare alle regole tradizionali e fondere nella nostra scuola i migliori trovati delle scuole straniere senza però abdicare al carattere melodico che é la base fondamentale d’ogni buona musica. Spogliarci di questo dono prezioso della nostra natura è un suicidio imperdonabile. Il gusto della buona musica non è ancora spento nel pubblico italiano: prova ne sia che ogni volta che venga, appena lodevolmente, eseguita qualche opera del vecchio repertorio le è sempre fatta festosa accoglienza.

Spetta al patriottismo ed alla sagacia di chi presiede all’andamento degli studi musicali, cioè dei direttori tecnici e dell’autorità tutoria, prendere gli opportuni provvedimenti per la conservazione delle buone discipline didattiche, e specialmente per la riforma delle scuole di canto, che è condizione sine qua non di progresso e di vita per l’arte italiana. Come di già accennai nel mio opuscolo intitolato La scuola di canto in Italia, pubblicato nel 1880, la quistione odierna musicale è quistione di canto. Si formino nelle nostre scuole i buoni cantanti e ritornerà in fiore la buona musica italiana, i cui tesori sono ignorati dalla giovane generazione e caduti nell’oblìo per mancanza di capacità negli artisti cantanti.

Spero che queste mio parole, dettate dal grande amore che sento per ogni gloria d’Italia e specialmente per l’arte del canto, cui non feci disonore, saranno benignamente accolte, e produrranno il bene che desidero all’arte ed agli artisti. Spero pure che i miei consigli saranno riconosciuti veri e sinceri come la parola di un morente, e come mio testamento artistico.

Testo estratto da L’arte melodrammatica italiana, Filippo Coletti, Roma, 1883. – Luca D’Annunzio.

error: Content is protected !!