Riflessioni sull'arte del canto

Heinrich Panofka:

Considerazioni generali XXII

Dell’esordire dei giovani artisti
 

Si chiede sovente dove far esordire un allievo; se nella città dove ha conoscenze ed amici, o se in altra città straniera. Cagione di tale incertezza è generalmente l’emo­zione inseparabile da una prima comparsa; frase ormai consacrata a orpellare il più sovente la po­chezza dell’ ingegno.

A noi pare che un giovane artista, il quale ab­bia imparato l’arte di vocalizzare e di fraseggiare, che conosca bene la lingua in cui deve cantare, che è abbastanza pratico della musica da non in­gannarsi nè nel tempo nè nella intimazione, e che ha fatto i suoi studi scenici, non debba aver paura di nessun pubblico; purché nell’esordire si scelga una parte adattata al suo ingegno, alla sua voce, e che coll’amore dell’arte sua possegga il dono di commuovere, sia colla piacevolezza dell’organo, sia con un sentimento vero e profondo. Un allievo così fatto si presenti adunque con piena confidenza da­vanti a qualsiasi pubblico d’un paese che ami la musica: non abbia il pensiero alle piccole soddisfazioni personali, stia al vero, si commuova, ma non però al punto di dimenticar ciò che dee fare; si addentri profondamente nel personaggio che ha da rappresentare fino al punto di credersi lui stesso; e riuscirà nell’ intento.

La controversia di sapere, se l’artista debba davvero sentire tutto ciò che ha da esprimere, o se debba dominare il suo uditorio con un sentimento che sia frutto dello studio; se bisogni che figuri d’esser egli nel fatto, o che lo appresenti come at­tore; una tal controversia fu sovente messa in campo. Noi siam di credere che non bisogni asso­lutamente nè l’una nè l’altra cosa.

Lo studio dei diversi sentimenti che deve espri­mere un cantante di teatro, come l’amore, la ge­losia, la passione, il fascino religioso, patriottico o sensuale, la preghiera o la maledizione, lo porterà talmente ad alternare queste diverse sensazioni che, se vorrà esprimerle come se fosse il personaggio del dramma, farà involontariamente astrazione dalla persona propria per immedesimarsi esclusivamente con quella della sua parte. E allora avverrà che confortato dagli studi di questo meccanismo dramma­tico, invasato dal personaggio che rappresenta egli sarà a una volta sola commosso e padrone di sè (1).

Ma fa pur di mestieri che l’artista confidi nel suo ingegno; che misuri bene la sua capacità per conoscere ciò che gli resta ad apprendere; che sia modesto di vera modestia, la quale non consiste nel negare le sue doti, ma nel riconoscere quelle d’altrui.

Dotato di tale modestia, convinto de’ suoi ta­lenti, punto dalla brama di far sempre cammino nell’arte, non dirizzando la mira che al bello ei per tal guisa sarà lieto d’aver al fianco altri grandi artisti piuttosto che temer d’averli vicini.

Quant’è madornale lo sproposito di quegli astri che non voglion brillare che soli, e che non bramano d’aver intorno che, o talenti di seconda risma o ta­lenti scaduti!

Costoro dimenticano d’avere a portare una soma ben grave, poichè la responsabilità del buon suc­cesso d’un’opera drammatica è tutta sulle loro spalle; e il giorno che un’ indisposizione fisica o morale li stremi d’una parte delle loro facoltà, la caduta è tutta per loro; mentre che un beli’ insieme che faccia valere i talenti di tre o quattro grandi arti­sti ha la sua efficacia su ciascuno di essi. L’emulazione che li stimola fa sì che ciascheduno cerchi la perfezione, e che questo insieme divenga la più grande attrattiva d’una scena lirica.

Cotale si fu l’incomparabile quartetto composto di Rubini, Lablache, Grisi e Brambilla, al quale in seguito si unirono i talenti grandi del pari di Tamburini., Persiani e Mario.

(1) Ciò che conferma tali asserzioni si è l’esempio di quegli avvocati illustri che sono a un tempo oratori politici. Allorché perorano davanti ai tribunali, ei parlano in nome dell’accusato che rappresentano e del quale difendono (buona o cattiva) la causa. Essi adoprano tutti gli artifizi per toccare e persuadere giurati, giudici e uditori; essi ricorrono a tutti i timbri della voce, dal più dolce e carezzevole, al più gagliardo e minaccioso; gestiscono costantemente e talvolta con tal violenza da batter perfino i pugni sulla barra; in una parola, sono attori; com­muovono, fanno piangere, ma non si scrolla neppure, quanto a sè, e non si affaticano per nulla: tant’è vero che perorano tutti i giorni. Quando, per lo contrario, costoro medesimi si presentano innanzi alla Tribuna parlamentare, dove sostengono la propria opinione e spesso i propri interessi, si fanno del pari assai segnalare, ma si affaticano perchè si preoccupano seria­mente; il loro discorso non è cosi preparato come ila difesa di una causa importante’; alla tribuna politica si mettono nel caso d’essere interrotti ad ogni momento e a dovere spesso cambiare l’idea preconcetta del discorso; e ciò gli costringe a degli sforzi intellettuali faticosi per il cervello o pei nervi, tanto che alla fine delle loro parlate sudano che paiono intinti, e il loro spos­samento fisico è tale che bisogna invilupparli nel mantello e me­narli via come malati. I cantanti che volessero, nel rappresentare Otello De­sdemona, Eleazaro Rachele, Raoul o «Valentina, provare in effetto tutte le angosce, tutti i dolori, e, in una parola, tutte le emozioni di questi personaggi, cadrebbero sfiniti la prima sera, nè sarebbe possibile che trovassero scritture. Fa d’uopo adunque che si padroneggino all’intutto, e che coi loro talenti e coi loro studi si mettano in grado di far illu­sione a sè stessi e al pubblico, fino al punto di credersi e farsi credere il vero personaggio del dramma.

Testo estratto da Voci e cantanti, Ventotto capitoli di considerazioni generali sulla voce e sull’arte del canto, Enrico Panofka, Firenze, 1871. – Luca D’Annunzio.

error: Content is protected !!