Tito Schipa:
Il maestro
Squinzano è un piccolo centro alle porte di Lecce, famoso per il suo vino. Ma per gli Schipa è sempre stato sinonimo di famiglia Blasi, altri amici della primissima ora e pronti al sostegno, all’incoraggiamento, all’aiuto. Il farmacista di Squinzano era un Blasi, Nicola, per gli intimi “Cocco”. Sua cugina Rosa era fidanzata al Maestro Giuseppe D’Elia, e questo rese la famiglia testimone di un’altra tappa fondamentale nel cammino di Tito.
Il vescovo Trama ne aveva appena inventata un’altra delle sue: aveva deciso di voler ascoltare il prodigioso scugnizzo nell’esecuzione di una “lamentazione”, e Dio sa quali prospettive di paradiso gli venissero da quell’accostamento di genere ed interprete, se si era addirittura adoperato per ottenere una dispensa curiale, dato che un repertorio del genere pare fosse strettamente riservato ai canonici. Il giorno che poté godersi il risultato della sua impresa era una Pascua, D’Elia era all’organo del Duomo di Lecce, Tito dritto e fiero alla balaustra ma, data la statura, inesorabilmente nascosto. Ancora una volta il gran Vescovo aveva aperto una porta alla Provvidenza. La Provvidenza era tra il pubblico, quella domenica. Si chiamava Alceste Gerunda.
Di lui sappiamo che il grande Francesco Paolo Tosti, nel suo esilio volontario in Inghilterra, ne parlava con accorata nostalgia. Non che fosse tipo da svenevolezze, Tosti, malgrado l’assenzio delle delle sue celebri melodie. Alla corte britannica, dove era stato nominato baronetto, se la spassava con un compagno di marachelle altrettanto celebre, Mario Costa. Pare che il loro svago preferito fosse prendere perfidamente in giro tutto l’ambiente blasonato cantando le celebri canzoni in un napoletano tutt’altro che conforme ai testi originali, infarcito di sconcezze orrende, approfittandosi del fatto che nessuno li capiva… Ma quando parlava di Gerunda, cantante e musicologo leccese, Tosti si chiedeva:
Dov’è il mio caro Alceste, che fa? Nessuno ha mai contato le mie romanze come le intesi da lui!
Di Gerunda sappiamo anche che era della classe 1847 e che fu allievo di Mercadante, il quale lo avviò anche al canto, quando lui avrebbe voluto limitarsi al solo pianoforte. Sappiamo che aveva un paio di baffi da far invidia a Crispi, che insegnò nel Convitto Nazionale Palmieri, poi nell’educandato femminile Vittorio Emanuele e poi come titolare della cattedra di Musica e Canto nelle scuola Normale, sempre a Lecce. Sappiamo che aprì una scuola privata a casa sua, vero punto di riferimento per tutta la didattica musicale del Meridione. Sappiamo infine che morì nel 1917, e che volle morire ascoltando una voce cantare.
Gerunda in quel dì di Pasqua era là, sotto l’organo di Giuseppe D’Elia, e l’altezza della balaustra del coro non gli impedì certo di accorgersi del piccolo Tito, la cui voce, già allora, doveva dimostrarsi capace di superare ben altre barriere architettoniche, con quella impostazione naturale degna di un oboe.
(Tra gli episodi che i vecchi melomani ripetono con aria incantata, quasi a rivelare un antico mistero, c’è il resoconto di quella volta che vollero – e ancora abbassano la voce raccontando, quasi a ritrovare il senso un po’ trasgressivo di quell’antica azione – vollero appostarsi all’estrema fila di sedie delle Terme di Caracalla, laggiù dove il palcoscenico pare visto in cartolina. Sentiamo un po’ che effetto fa, la vocetta di Schipa, a questa distanza. E, miracolo, quella vocetta arrivava, corrente e morbida come un filo di seta, stagliandosi intatta ben al di sopra del coro e dell’orchestra, e al di sopra dei colleghi, ignari di quell’effetto hi-fi.)
In quella Pasqua delle lamentazioni a Lecce (1905) ritroviamo il destino “specializzato” che si è rimesso all’opera. In Alceste Gerunda Tito incontra non solo il maestro ideale, il maestro dei maestri, ma il prosecutore della regola aurea già accennata da Trama: preservare, prima ancora che insegnare.
Prima cura di Gerunda fu fare in modo che Tito non aprisse più bocca se non sotto la sua guida, e che la consacrazione al suo destino fosse totale, quasi monacale. Per questa vocazione lo volle nella sua scuola privata. Convinse genitori e vescovo a lasciargli carta bianca, e a far smettere a Tito la “palumbula”, la tonachella seminariale. Era un modo per assicurarsi che l’attività vocale del ragazzo fosse sotto il suo totale controllo e si limitasse ai soli vocalizzi. Quelli, solo quelli, sempre quelli. Guai, guai ad emettere una sola nota non inquadrata in una dinamica logaritmica, guai a concedersi il lusso lascivo di una frase qualsiasi, di una fiato estemporaneo, di una vocale non sorvegliata. Tito ricordava l’incubo di questa minaccia ogni volta che tornava con la mente al suo tirocinio sotto Gerunda.
Guai a sgarrare! Tre anni di vocalizzi – diceva – e il giorno che trasgredii…
Alcuni amici mi pregarono e ripregarono con tale insistenza, che finii col cantare una sola strofa de “O sole mio”, accompagnandomi io stesso sulla chitarra. E alle nuove preghiere rimasi imperterrito. L’indomani, alla solita ora, eccomi in casa del maestro… Egli mi aspetta, come sempre, in maniche di camicia e con la pipa in bocca…
Dove sei stato ieri ser?
A casa.
A che fare?
Come a che fare? A dormire.
Risposta immediata: un ceffone così potente che mi diede la sensazione d’averci rimessa mezza faccia.
Il seminario viene abbandonato più che volentieri.
“Puozzo fa ‘o prèvete”?, si sarà chiesto Tito con le parole di una celebre macchietta del suo Maldacea.
Passano così cinque anni, in cui lo studente si mantiene e aiuta la famiglia lavorando da praticamente presso lo studio Nicola De Simone Paladini, noto avvocato leccese. Neanche qui abdica al suo “dover essere” musicale, e organizza concerti clandestini con le sorelle del capoufficio. Ma si tratta di chitarra, clarino e mandolino. La voce non si tocca, questo l’ha capito bene. Suonare invece si può, ed anche comporre. Anzi Gerunda, dimostrando un’intuizione sempre più lucida, lo avvia prima al pianoforte (dal suo parente Giuseppe Schipa, docente presso il Conservatorio di Napoli), poi alla creatività musicale, iniziandolo alle tecniche dell’armonia e del contrappunto. Questa della composizione, che Tito chiamerà la “seconda passione” della sua vita, vedrà il primo prodotto ufficiale da lì a poco con la stesura di una messa, perfettamente canonica, che porterà con sé ovunque nel mondo del tentativo di farla eseguire. Ma il suo genio creativo si manifesterà più tardi, in alcune canzoni davvero degne del grande repertorio.
Al sesto anno di tirocinio canoro, lungo e monacale come quello di un antico contrappuntista (e altrettanto prezioso), Gerunda si appresta al “varo” di quella voce. E lo fa impostando, con la massima precauzione, un paio di brani “leggeri”: di Denza e, naturalmente, di Tosti.
Testo estratto da Tito Schipa, Tito Schipa Jr., Lecce, 2004.